2000 QUELL'OCCHIO IRREQUIETO CHE CERCA SEMPRE ALTROVE
date » 04-10-2018 15:47
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- DI ATTILIO BOLZONI
[urlExt=https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2000/02/27/quellocchio-inquieto-che-cerca-sempre-altrove.html]LEGGI L'ARTICOLO[/urlExtQuell'occhio inquieto che cerca sempre altrove
(segue dalla prima pagina) C' è Cuba e c' è la Siria, ci sono gli aristocratici siciliani, c' è tanta India e tanta mafia, e poi il Brasile e il Messico e la Thailandia. Tutto catalogato con cura, tutto ben ordinato come le penne e le agende sul piano del tavolo davanti alla finestra e come la parete colma di libri d' arte. «Cerco da molti anni un ordine interiore, soprattutto nelle cose che faccio tutti i giorni. Credo di averlo trovato. La mia giornata comincia sempre con la meditazione, cinque minuti o un' ora non importa~». Nella stanza da letto brucia l' incenso, il lettone, la grande foto di Osho, il "maestro" conosciuto a Poona e di cui tanto ci parlerà la nostra collega Shobha. È sempre stata bella, fin da ragazzina. Capelli biondi e lunghi, il sorriso luminoso, gli occhi curiosissimi. «E visto che ci conosciamo da molto tempo, ti prego di non scrivere anche tu quella frase che proprio non sopporto quando parlano di me: "Prima si chiamava Angela e adesso si chiama Shobha". Io mi chiamo Shobha e basta, firmo così anche gli assegni». Diciamo allora che Angela è ormai Angela solo negli archivi dell' anagrafe, registrata quarantacinque anni fa al Comune di Palermo. E che invece Shobha è qui ed è vera, qualche volta dura e molte più volte tenera, leale, generosa, amica. Papà è Ignazio Stagnitta, quello del caffè, miscele sudamericane tostate prima nel centro storico e poi pure nella città nuova. La mamma è Letizia Battaglia, fotografa di grande fama anche lei, una "pasionaria", una delle anime dell' altra Palermo. «Da bambina vivevo a Mondello, ero felicissima, quando i miei si sono separati sono andata a Venezia con mamma. Ho due sorelle, una più grande che si chiama Cinzia e l' altra più piccola che si chiama Patrizia». Elementari negli istituti religiosi, prima a Venezia e poi alle Ancelle qui a Palermo. «Ricordo che a scuola mi costringevano a mangiare ogni giorno il bollito, lo nascondevo in tasca, se ne accorgevano e aspettavano lì fino a quando non mandavo giù l' ultimo boccone, adesso non mangio carne da trentacinque anni». Torna in Sicilia, l' adolescenza, studia pianoforte, dipinge, le canzoni di Patty Pravo, i balli, lei che viene eletta miss Yè yè, il primo fidanzatino. «Era gelosissimo, si infuriava appena qualcuno mi guardava per strada. Ma Palermo mi annoiò presto, avevo voglia di libertà, avevo voglia di conoscere tanto». Sua madre è a Milano, scrive per un settimanale. E così anche Shobha va a Milano. Conservatorio, il violoncello, gli amici artisti di Letizia, la baby sitter di sera per guadagnare qualche soldo. Shobha ha 16 anni. «In quel periodo ho conosciuto Mauro Rostagno, e ho conosciuto tutti quei palermitani che stavano a Milano. L' architetto Filippo Panseca, quello che diventerà poi lo scenografo di Craxi, il pittore Nuele Diliberto. Bivaccavano tutti a casa di Francesco Cardella, sì proprio quello della comunità Saman. Era già ricchissimo allora, era anche l' editore di Abc». Editore di Abc e di un' altra dozzina di riviste «a busta chiusa». Una la vendeva con un gadget, una polvere magica, «il pirampepe»: la pubblicità assicurava «erezioni perenni, se spalmata sul glande». Shobha è ospite del futuro "dittatore" di Saman per un anno, in via Solferino. «Un appartamento bellissimo, lui con me era molto protettivo e molto gentile, io ero però una ragazzina e in quella casa non potevo starci bene, quell' ambiente mi era totalmente estraneo, le bellissime modelle che entravano e uscivano, le feste con le torte di marijuana, i lussi sfrenati di Cardella, così me ne sono andata a vivere in una di quelle case di ringhiera fuori porta». È il 1971 e a Milano incontra un ragazzo tedesco che le parla dell' India e di un omino vestito di bianco che vive a Poona. «Cominciai a scrivere a Bagwan Shree Rajneesh. Lui, Osho, mi rispose, diventai arancione praticamente per corrispondenza». Diventa così Ma Gyan Shobha, che significa Madre di saggezza splendente. Ma ha solo 17 anni, non ha passaporto, non può raggiungere subito come lei vorrebbe il suo maestro dall' altra parte del mondo. «Avevo tantissima energia ma senza un metodo dell' energia non te ne fai niente, il metodo è la nostra libertà. Solo conoscendo a fondo la macchina fotografica ci si può esprimere con la fotografia e raggiungere l' armonia e l' equilibrio, ma è ancora presto per parlare di foto in quel periodo della mia vita». Ancora Milano, primi anni Settanta. C' è Esmeralda qualche volta con lei, una delle sue migliori amiche allora come oggi. «Esmeralda era fidanzata con Andalo, poi si lasciarono e lei si sposò con il fratello di Andalo. Andalo me lo sposai io». Andalo Carrega Bertolini, il primo matrimonio. Un paio di anni tranquilli, grandi affinità, poi il ragazzo finisce in galera per un po' di erba fumata alle Eolie d' estate. Carcere duro, libertà provvisoria e poi ancora prigione: intransigenza di quei tempi per un po' di fumo. «La storia con Andalo finì non senza sofferenze, persi anche un bimbo, sono andata a lavorare in Toscana e poi sono tornata a Palermo». Cuoca in un ristorante "alternativo" di piazza Marina, il locale si chiama «Il puledro impennato». È solo una breve stagione. Poi, finalmente, Shobha va in India. L' incontro con Osho, la comune, la meditazione. «Ho lavorato su me stessa, vivevo in una realtà meravigliosa, sveglia alle 4,30 del mattino, esercizi spirituali e danze». Laggiù fa anche arti marziali, impara il karate. «E soprattutto ho imparato a prendermi cura di me fino in fondo». Un piccolo segno di quegli anni è ancora tra il braccio sinistro e la spalla di Shobha, un tatuaggio minuscolo, il simbolo del Tao. «A Poona dentro la comunità non entravano tossici né sballati, sono stati otto anni di sogno ma poi Osho trasferì il suo quartiere generale in Oregon, fui una delle poche italiane a seguirlo, ma la sua segretaria era una spia della Cia. Il maestro fu avvelenato giorno dopo giorno, non parlava più, non ci incontrava più. Alla fine morì». Shobha torna in Sicilia. «Dopo un anno in California a Long Beach e sei mesi in giro per il Messico con un furgone». Nel 1981 è a Palermo, in via Meccio, una traversa di via Mariano Stabile. Il suo appartamento è sotto quello di Letizia. Sono gli anni in cui si apre il romanzo nero siciliano, la guerra di mafia, Letizia che corre di giorno e di notte per fare le foto dei cadaveri che "L' Ora" stampa in prima pagina. «C' erano sua madre e il suo compagno Franco, Franco Zecchin, mi sembrava che facessero un lavoro assurdo, io ero fuori da tutto, dall' Italia, dalle tv, dalla cronaca da almeno dieci anni. Poi un giorno Letizia mi chiese il favore di stare un paio di settimane nel suo studio perché doveva fare un reportage in Europa. Rispondevo alle telefonate dei giornalisti che chiamavano, così ho fatto la mia prima fotografia con una vecchia Nikon di Letizia». Donne in nero, vedove di mafia a piazza Croci. E poi la seconda foto, un incaprettato, uno di quegli uomini legati mani e piedi perché si strangolassero da soli. «Mia madre stava diventando famosa, la chiamavano da Life e da Stern. Io stavo cominciando a correre di qui e di lì per fare quello che aveva fatto lei per tantissimi anni». Sempre "L' Ora" con lo strillone che grida «Morti e feriti. Quanti ni cadiru. Quanti ni muriru», il numero dei cadaveri come titolone e sotto la foto scontornata. «Letizia mi ha insegnato a essere onesta con la fotografia, il resto ce l' ho messo io: con la fatica e con il sentimento». I volti delle pentite di mafia che fanno il giro del mondo, le prime foto sui magazine importanti, i primi guadagni. E poi le stragi, i funerali, la Palermo dei cortei e delle lenzuola. «Non ero più la fotografa figlia di Letizia, ero solo io: ero Shobha. Ma cominciava a starmi stretta anche quella Palermo». Un viaggio negli Stati Uniti per un ritratto di Silvia Baraldini in cella, lo studio di fotografia in via Ruggero Settimo, un altro viaggio a Cuba e anche l' Occidente scopre il viso di Alina Fernandez Castro, la figlia di Fidel. «A Cuba trovammo i figli del Che, Aleida ed Ernesto e Camillo
Attilio Bolzoni
di ATTILIO BOLZONI